Germano Cabbia, un disegnatore di scarpe con l'animo d'artista

Ci sono uomini che fin dalla loro nascita possiedono la fortuna del talento e che non hanno bisogno dello studio per realizzare i capolavori dettati dalla fantasia. Uno di questi uomini era senza dubbio Germano Cabbia di Fossò: un disegnatore di scarpe con l’animo d’artista scomparso nel 1998. Ma prima di parlare della sua storia è necessario fare un passo indietro andando a conoscere un altro uomo fuori dal comune, suo padre Pietro, classe 1898. Pietro Cabbia fu un vero esempio per tanti giovani per bravura e attaccamento al lavoro. Egli esercitava l’attività di produttore di zoccoli e “sgàlmare” nella casa del padre, sempre a Fossò. Le sue calzature erano estremamente curate, fin nei minimi particolari. Il legno utilizzato per le “peche” era solo di noce, platano o olmo, e veniva lavorato con maestria seguendo la venatura. Per effetto degli incavi dolci e carezzevoli, la materia prima riusciva a prendere vere e proprie forme anatomiche, tanto che i suoi clienti gli dicevano che i suoi zoccoli non stancavano mai ed erano comodi come le scarpe. Quando Germano cominciò a crescere, decise di avviare anche lui al mestiere delle scarpe. Ma non volle farlo lavorare in casa pensando che avrebbe imparato meglio “sotto padrone”. Pietro collaborava con Geremia Cabbia che possedeva un laboratorio artigiano in paese e chiese al collega di assumere il giovane figlio. Nei primi mesi Pietro fece notare a Geremia di trattare troppo bene il ragazzo con la “paga”: perché era giovane ed era già tanto che avesse la possibilità di imparare un mestiere. Con il trascorrere del tempo le capacità artistiche di Germano Cabbia emersero con forza. Quando aveva la matita in mano disegnava, disegnava sempre e dappertutto. Terminato l’apprendistato alle dipendenze di Geremia andò a lavorare come tagliatore di pelli, ma faceva disperare il principale: appena vedeva un pezzo di carta libero su un tavolo disegnava qualcosa, figure sacre soprattutto. A vent’anni decise di cambiare lavoro avviandosi alla professione di modellista di calzature. Naturalmente dotato per il disegno e con una fantasia effervescente, Germano produsse in un arco temporale di oltre trent’anni modelli di scarpe e “prototipi” per numerose fabbriche della Riviera del Brenta e di Vigevano, la città allora considerata la patria della calzatura. Per raggiungere Vigevano, Germano partiva in treno con le valigie piene di campioni e, spesso, si faceva accompagnare nei suoi viaggi dall’amico Giuseppe Boscaro per superare il leggero imbarazzo con i clienti a cui il suo carattere un po’ introverso lo obbligava. Germano era una persona seria ed onesta dall’animo limpido che non sopportava la cattiveria, le brutte maniere e soprattutto i padroni delle fabbriche che bestemmiavano. “Gli è capitato qualche volta – ricorda affettuosamente la moglie Lauretta – di trovarsi a lavorare come modellista in alcune aziende dove i modi erano un po’ spicci e non si andava tanto per il sottile. Quando il titolare gli inveiva contro bestemmiando, Germano non faceva una piega: ascoltava in silenzio, poi si toglieva il camice e rassegnava le proprie dimissioni sul momento, lasciando sbigottito il padrone che poi veniva a cercarlo scusandosi. Ma lui raramente faceva marcia indietro, anche perché con la sua innata fantasia non ha mai avuto problemi a trovare lavoro, anzi. Ma neanche quello del modellista era il vero “mestiere” di Germano. La sua passione era un’altra: grande, profonda e coltivata con amore. Quella per l’arte. Il primo quadro lo ha dipinto a 16 anni copiando una riproduzione in bianco e nero. Di cosa si trattasse Germano lo ha scoperto molti anni dopo: un angelo musicante di Giovan Battista di Jacopo detto il Rosso Fiorentino, un famoso pittore toscano del rinascimento. Una passione, quella per la pittura, che ha portato Germano Cabbia a creare opere bellissime come il grande dipinto su tavola che raffigura Sant’Antonio attorniato da un gruppo di giovani vestiti secondo la moda degli anni ’70, tra i quali i due figli Marilena e Fabrizio (che ha seguito le orme del padre diventando un abile modellista). Destinato alla chiesa di Fossò, dove tuttora si trova, il quadro nel 1982 fu portato nel chiostro della basilica di Sant’Antonio a Padova dove il papa Giovanni Paolo II, nell’occasione della visita alla città, lo ha benedetto inginocchiandosi di fronte. Ma Germano non aveva solo il talento di disegnare e dipingere, era appassionato anche di letteratura, tanto che sapeva a memoria la “Divina Commedia”: un’opera che lo affascinava. Quando egli era in vita amava ripetere: “L’arte secondo me deve essere spontanea come una sorgente. Se la si razionalizza non si ottiene lo stesso effetto. Se si hanno dei sentimenti si possono fare dei capolavori con ogni cosa”. Con dei riccioli di gelso, ad esempio, egli ha ricavato un originale Cristo e con altri legni ha inciso figure di animali di grande verismo. Con la ceramica ha poi realizzato un singolare portacenere dove un uomo primitivo, accovacciato come un gatto in agguato, guarda con timore il fumo della sigaretta appoggiata al portacenere. Una realizzazione che rappresenta lo stupore del primo uomo alla scoperta del fuoco. Ma l’opera che Germano ricordava con più emozione era quella realizzata in una sola notte: un crocefisso intagliato nel legno che nel 1982 ha messo tra le mani del padre Pietro prima della sepoltura. E sempre in occasione dell’estremo saluto al padre, Germano ha voluto disegnare e scolpire personalmente nel marmo della tomba anche il profilo austero del genitore per rispondere all’affettuoso rimprovero che il padre spesso gli faceva: “Perché mi mostri così poche volte le belle cose che fai?” Forse perché Germano, come tutti gli artisti dotati di grande sentimento, aveva un senso di modestia che superava il desiderio di mostrare le proprie creazioni che per lui non erano mai terminate nella perfezione desiderata. Con le sue opere e l’esempio umano, Germano Cabbia ha lasciato a Fossò e nelle tante persone conosciute il ricordo dell’artista, di persona onesta e di padre affettuoso: l’eredità che qualunque uomo sogna per sé nel momento in cui si avvicina il tramonto della vita. (Diego Mazzetto)
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