Bepi Tolin: Uno degli ultimi "Scarpàri" della Riviera del Brenta
Quando si parla della Riviera del Brenta, è difficile non pensare al mondo della calzatura artigiana che, da decenni, contraddistingue la zona. Quello che è invece difficile, è trovare ancora oggi maestri calzaturieri in grado di realizzare dal nulla una scarpa. O meglio a partire dal pellame e poi, via via, tutte le operazioni necessarie completamente a mano. Uno di questi calègheri è Giuseppe, detto Bepi, Tolin classe 1930. La piccola fabbrica di Vigonovo in provincia di Venezia in cui ha trascorso praticamente tutta la vita, oggi è gestita dal figlio Ivano che prosegue con passione l’attività iniziata dal padre. “Difficile- confida Ivano sorridendo- tenere papà lontano dalle scarpe: pur in pensione, egli non rinuncia al suo giretto quotidiano in fabbrica. Con il suo occhio esperto controlla le lavorazioni, i pellami e l’andamento del lavoro. Penso, davvero, che per lui tutto ciò rappresenti la vita: un mondo irrinunciabile che ha sempre assorbito ogni istante della sua esistenza”. E a testimonianza di questo, c’è il “Museo” che da anni Bepi ha allestito nella vecchia casa a fianco della fabbrica. La stessa casa dove è nato con i cinque fratelli. Accompagnati dal suo modo di fare scanzonato e amichevole ci “addentriamo” in un mondo d’altri tempi, tra attrezzi appesi alle pareti che raccontano fatiche e tante ore di lavoro sul cuoio e i pellami. “Tutti questi oggetti li ho salvati dai raccoglitori di ferrovecchio – racconta Bepi – e li considero parte della mia vita, della mia storia. Tenaglie, Subìe (attrezzi per passare il filo nelle cuciture), forme (una, singolarissima, di stivale in legno), sgàlmare (antichi zoccoli di legno usati nelle campagne venete), vecchi macchinari tra cui un’antica pressa a mano; e poi ancora modelli di stivali di sua produzione appesi ai muri: tutto conservato religiosamente. Una vera e propria curiosità è rappresentata da una scarpa gigante realizzata interamente a mano da Bepi che, spesso, gli viene richiesta dai negozi per esporla in vetrina. “Ho iniziato a lavorare giovanissimo, a 10 anni – racconta Bepi – come si usava ai miei tempi. Dopo una breve esperienza presso una bottega di fabbro, mi sono avviato al Deschetto, il famoso banchetto dei vecchi calzolai. Allora si lavorava nelle corti delle case contadine all’aperto, spesso in compagnia delle galline che razzolavano qua e là. Eravamo in 9 in famiglia e per fortuna – sorride – avevamo un paio di capre che ci garantivano quotidianamente il latte. Durante il periodo della seconda guerra mondiale, c’erano persone che uccidevano bovini nei fossi perché, a causa delle restrizioni, era vietato il commercio di carne. Così, insieme a mio padre, cercavamo di acquistare il pellame per lavorarlo. Con l’allume di rocca, acido muriatico e sale conciavamo la pelle che poi veniva posta ad essiccare. Il sale era introvabile, e così andavamo nella laguna di Venezia in bicicletta per procurarci l’acqua salata. All’età di 14 anni fui in grado di fare una scarpa da solo e così mi feci fare una serie di forme per calzature da uomo per iniziare la mia attività. Partii con un socio, e successivamente con mio fratello che faceva il barbiere ed era da poco tornato dal servizio militare. Erano tempi di grande miseria, si lavorava per poco, per sopravvivere. Le scarpe si facevano interamente a mano, si cucivano dentro e fuori, e la mia produzione era di un paio al giorno. Un po’ per volta le cose cambiarono. Il mercato calzaturiero prese piede e cominciammo ad attrezzarci per una produzione più elevata, rimanendo però sempre nell’ambito artigianale.
Il nostro settore di punta era la scarpa maschile e così, incoraggiati dai rappresentanti con cui lavoravamo, iniziammo a produrre stivali da uomo con tacco 40-100 molto originali e personalizzati con frange, strass e gli accessori più vari senza limiti di fantasia. Fu la nostra fortuna: lavorammo tantissimo per il mercato francese, tedesco e americano. Per evadere gli ordini si iniziava a lavorare presto al mattino e fino a tardi la sera. Tutto questo sempre con la filosofia che è ancora quella che porta avanti mio figlio: la scarpa viene fatta interamente in fabbrica, dal rotolo di pellame fino alla messa in scatola, oggi come ieri sempre e solo con il marchio Tolin”. La versatilità dell’azienda si è poi rivelata nel corso degli anni ’80 del secolo scorso: “Ci fu un momento – racconta Bepi che le scarpe da uomo iniziarono a perdere mercato, e così, su consiglio dei nostri agenti, decidemmo di iniziare a produrre scarpe e stivali da donna. Questa decisione si dimostrò azzeccata e iniziò per noi l’esperienza che mio figlio porta avanti con successo”. Vediamo, in un angolo della fabbrica un vecchio banchetto da calzolaio e chiediamo scherzosamente a Giuseppe Tolin se è ancora in grado di attaccare su una scarpa i chiodi (sèmense), aggiustandoseli con la bocca. Come ci immaginavamo raccoglie con entusiasmo il nostro invito e, dopo essersi messo in bocca una manciata di chiodini, ci mostra un gesto dal sapore antico, con la tenaglia che a velocità incredibile raccoglie dalle labbra i piccoli chiodi sapientemente “preparati” dalla lingua.
Nel riporre la tenaglia, Bepi ci mostra un’altra curiosità: l’attrezzo ha un buco sul ferro all’altezza delle ganasce, segno inequivocabile di ore ed ore di lavoro vissute nel corso di 70 anni di attività ininterrotta.
Nel salutare Giuseppe Tolin, gli chiediamo cosa rappresenti per lui il mondo della calzatura. “Tutto- ci risponde- tra le scarpe ho trascorso gran parte della mia vita”. E la soddisfazione più grande dopo il successo nel lavoro? “Vedere che ci sono ancora insegnanti nelle scuole che comprendono l’importanza della storia della calzatura per la nostra zona. Ogni tanto giungono qui scolaresche portate dai maestri per mostrare ai bambini i vecchi attrezzi e come si crea dal nulla una scarpa. Questo, vi garantisco, è per me un momento che mi rende davvero fiero e orgoglioso di rappresentare l’arte degli antichi caleghèri della Riviera del Brenta”. (Diego Mazzetto)