Luigino Rossi e Acrib: una storia di successi
Quella di Luigino Rossi (fondatore e terzo Presidente dell’Associazione Calzaturieri Riviera del Brenta), è una storia di grande importanza per il distretto calzaturiero. Questa premessa è necessaria per entrare nel contesto di una vicenda imprenditoriale dai tratti singolari e per certi versi unici.
E percorrendo, mattone su mattone, la scalata all’indiscusso successo avvenuto tra non poche difficoltà, sorprende trovare ancora, dopo 50 anni, Luigino Rossi in fabbrica fino a tarda ora, con l’entusiasmo di sempre, a dialogare con i suoi collaboratori di scarpe, tacchi, pellami e mercati. Se potessimo tornare indietro con il tempo nella Stra degli anni ‘50, ci troveremmo di fronte ad un paese che incominciava a intravvedere dei segnali di ripresa economica, dopo il buio della seconda guerra mondiale. Qua e là piccoli laboratori artigiani di scarpe dove si lavorava manualmente senza sosta. Da uno di questi laboratori, e più precisamente da quello di Narciso Rossi, nella fredda mattina di un sabato come tanti, avremmo visto uscire di buon’ora Luigino, il figlio di Narciso, allora appena diciottenne in sella ad un motorino caricato con una cinquantina di scatole piene di scarpe da vendere al mercato di Adria e Ariano Polesine. Arrivare a destinazione era un’avventura; e se pioveva, poi, ci volevano tre ore di andata e tre di ritorno. Quello che può sembrare il “prologo” di una storia ricavata da un libro di antologia, non è altro che l’inizio della sorprendente carriera, tutta in salita, di un capitano d’industria che, nonostante tanti successi, ha conservato intatte due doti rare e, al giorno d’oggi, sempre più difficili da incontrare: la modestia e l’umiltà. Non è facile riassumere in poco spazio una storia di vita imprenditoriale così ricca e variegata che tutt’oggi prosegue il suo cammino. Per questo ci limiteremo a ripercorrere principalmente il periodo che ha visto Luigino Rossi impegnato nella fondazione e nella presidenza dell’Acrib. L’inizio della prima esperienza associativa risale agli albori degli anni ‘60 –racconta Rossi – in concomitanza con una svolta fondamentale che decisi di dare al mio lavoro. Ebbi l’intuizione (primo in Riviera del Brenta e in Italia), di produrre e distribuire su licenza calzature firmate dai grandi stilisti francesi Christian Dior, Ives Saint Laurent, Givenchy. Cui seguirono, nel corso degli anni, altri marchi tra i più prestigiosi al mondo i quali mi consentirono di avere una continuità costante di lavoro senza registrare mai un giorno di arresto della produzione. Tornando al discorso del primo tentativo di associazione, ricordo che nel 1960-61 Giuseppe Zuin aveva un rappresentante ben inserito nel mercato svizzero e così decidemmo, in 8-9 calzaturieri, di creare un campionario ciascuno da affidare al venditore creando, per l’occasione, uno Show-Room a Stra. Fu un tentativo forse prematuro, ma che mi dette la possibilità di capire un dettaglio fondamentale. Se in zona cinque sei imprenditori si fossero spesi per dedicare del tempo all’associazionismo, si sarebbero potuti ottenere dei risultati importanti sia di carattere locale, sia nell’ambito dell’Anci (Associazione Calzaturifici Italiani N.d.R.), che, a quel tempo, era ridotta ad un club di circa 40 iscritti in tutta Italia. Oltre a ciò, un’altra situazione che mi spinse con altri colleghi verso l’idea di consociarsi, fu causata da circostanze non certamente facili. In quei tempi, l’unica grande azienda produttrice di scarpe era la San Marco di Fiesso d’Artico, e da qualche mese si era insediata in fabbrica una rappresentanza sindacale piuttosto tenace e difficile da gestire, tanto da creare non poche apprensioni ai proprietari. Cominciarono così i primi scioperi che ben presto si allargarono a tutti i calzaturifici del territorio. Bisogna ammettere che nessuno di noi era psicologicamente preparato ad affrontare degli attacchi così violenti. A quel tempo si lavorava alla vecchia maniera, con situazioni spesso irregolari. Preoccupati per lo stato di tensione che sembrava destinato a sfuggire di mano, alcuni di noi decisero di incontrarsi e discutere insieme sul da farsi. Il luogo dell’appuntamento fu fissato nella sala di quella che, al tempo, era una discoteca nel centro di Stra e fin da subito prevalse l’idea di creare un’associazione che ci permettesse di diventare una voce di rilievo per confrontarsi con il sindacato e poter firmare un contratto di zona così da mettere la parola fine alle ostilità. In quell’occasione la nostra fortuna fu quella di trovarci fin da subito in un gruppo unito, tanto che venne redatto velocemente lo Statuto senza difficoltà. Il passo successivo fu quello di porci la domanda se era più utile per noi, come nuova associazione, aderire all’Api o alla Confindustria. Si decise per la seconda possibilità, e così presentammo le nostre credenziali presso la direzione di Venezia. Sinceramente non trovammo la disponibilità sperata perché, fin dal primo approccio, si presentò un problema di confini provinciali. Le alte cariche di allora ci dissero che, trattandosi di un’associazione, la nostra, a cavallo tra le Provincie di Padova e Venezia, le singole aziende avrebbero dovuto confluire nelle rispettive Confindustrie territoriali. Naturalmente – prosegue Rossi – feci presente che la nostra associazione aveva senso solo se unita, ma ci fu opposto un netto rifiuto e così con grande delusione, ma con altrettanta risolutezza, decidemmo di abbandonare quella strada. Nel frattempo, continuavano nelle fabbriche le tensioni e le pressioni sindacali. Non fu naturalmente facile, ma attraverso la logica del dialogo e del buon senso riuscimmo a spuntare un accordo con il sindacato che ci permise di chiudere quel difficile capitolo e di iniziare a lavorare con serenità. I vertici della Confindustria veneziana rimasero sorpresi dal nostro clamoroso successo, e si fecero loro avanti questa volta per chiederci di aderire. Noi accettammo, anteponendo però la nostra ferma condizione che era quella di rimanere uniti. Fummo accontentati e questo accordo rappresentò un’importante vittoria e un riscatto morale. Ecco l’inizio dell’Acrib: un grande spirito di coesione da parte di un gruppo di amici che si incontrano tuttora. Io, da parte mia, in seno sia all’Acrib e poi in seguito all’Anci e al Cec (Confederazione Europea della Calzatura N.d.R.), ho sempre cercato di tenere alta la bandiera della nostra scarpa, della qualità, del prodotto fine, del prodotto firmato. Da questi obiettivi è nata l’idea di creare poi con i colleghi il Consorzio dei Maestri Calzaturieri del Brenta, il Politecnico Calzaturiero, le mostre all’estero, i Mestieri della Moda a Venezia, spettacoli a Berlino, New York e Mosca. Non dobbiamo dimenticarci, mai, che qui in Riviera del Brenta abbiamo un concentrato di creatività e di formazione ineguagliabile; e non è un caso che il grande gruppo del lusso mondiale LVMH (Louis Vuitton), abbia investito nella nostra zona per la creazione delle proprie calzature. Quello che manca ancora qui è il perfezionamento della commercializzazione: le scarpe sappiamo farle, bisogna che siamo altrettanto bravi a promuovere la vendita nel mondo. Un tempo tutto era più semplice, oggi il mercato è globale e dunque solo chi saprà distinguersi operando con la qualità e il savoir faire potrà conquistare risultati importanti di vendite e di immagine”.
Queste, in sostanza, le tappe fondamentali dei principali successi dell’Acrib a cui ha contribuito Luigino Rossi dal 1961 come fondatore e segretario e, dal 1981 al 1988, con il ruolo di Presidente. Collaborazione che, nonostante i logici avvicendamenti al vertice, non è mai venuta meno fino ad oggi, concretizzandosi con la sua nomina a Presidente Onorario dell’Associazione. E a questo punto, considerando la sua esperienza, sorge spontanea la domanda di come l’imprenditore Luigino Rossi vede l’Acrib di domani. “E’ sempre difficile prevedere i cambi generazionali – risponde. Credo sia il momento di puntare sui giovani, come del resto è già stato fatto in occasione del mandato affidato all’attuale Presidente Giuseppe Baiardo. Dall’inizio dell’avventura calzaturiera nella Riviera del Brenta siamo giunti alla quarta generazione: siamo riusciti a tenere in vita questa piccola fiamma accesa dai nostri padri e abbiamo il dovere morale di non lasciarla morire. Noi, quando abbiamo cominciato avevamo la licenza elementare, incrementata, nel mio caso, attraverso la paziente frequentazione di scuole serali che mi permisero di acquisire conoscenze fondamentali per la gestione aziendale. Anche se, sinceramente, molte cose le ho imparate lavorando sul campo. Oggi i nostri figli sono superlaureati e hanno a disposizione mezzi tecnologici che facilitano i contatti con il mondo. Non so, però, se dispongono dello spirito di sacrificio e volontà di emergere che rappresentano la base necessaria per il raggiungimento degli obiettivi. Il consiglio più sincero che mi sento di dare alle nuove generazioni è quello di amare il proprio lavoro e proporsi nel mercato con etica e umiltà: valori che sono il cardine dei rapporti umani e che consentono di andare sempre a testa alta, ovunque. Ragazzi con queste qualità ne ho visto più di qualcuno nelle aziende della Riviera del Brenta, e nelle loro capacità, nella voglia di agire, nella passione e nell’impegno che spendono quotidianamente, intravvedo il Presidente che porterà l’Acrib ai successi del domani”. (Diego Mazzetto)