Una villa, due bambini, una storia
Una domenica di non molto tempo fa, ho deciso di recarmi al mercatino dell’antiquariato di Brugine, che si svolge nel cortile dell’antica villa Roberti. L’occasione di una visita guidata alla splendida dimora rinascimentale, proposta dalla proprietà, mi è sembrata di quelle da cogliere al volo, per tuffarsi in un passato ricco di emozioni. Il grande salone centrale, affrescato dalle abili mani di Giambattista Zelotti nella seconda metà del Cinquecento, è un vero trionfo di colori, personaggi e ardite prospettive. Nelle stanze conservate con amorosa cura dagli attuali proprietari, sembrano riprendere vita generazioni di uomini illustri, i Roberti in particolare, che commissionarono nel Cinquecento al celebre architetto Andrea della Valle la progettazione della villa di Brugine.
Ma la storia che vorrei raccontare in queste pagine non riguarda la villa e le opere d’arte che la rendono una gemma della campagna veneta. E’ invece la commovente vicenda di Francesco, l’ultimo Roberti, morto a soli dodici anni nel 1638. Francesco, come il fratellino Giulio, per sfortunate combinazioni genetiche aveva una salute fragile. La madre, Anna Alvarotti, era invece una donna di forte temperamento che non si dava pace nel vedere sacrificata la propria vita tra tante figure deboli e malate. Il marito Gerolamo Roberti era morto giovanissimo nel 1630 lasciandola sola con due teneri figli nel fiore dell’età e della bellezza. Il più piccolo, Giulio, non aveva tardato a seguire il padre a causa di una grave malattia. Anna non si era rassegnata a vivere nella solitudine e così decise di accettare la corte del marchese Cosimo dal Monte. La tutela di Francesco, ultimo esponente maschio della nobile famiglia Roberti, fu ben presto motivo di aspre liti fra suocera e nuora, fino a che i dissidi non trovarono una soluzione con la nomina a tutore del ragazzo nella persona dello stimato Scipione Papafava.
In quegli anni, il marchese del Monte era stato inviato dalla Serenissima a reggere la fortezza di Palmanova, ed Anna lo aveva seguito con Francesco. Ma, agli inizi del 1638, il fanciullo era tornato nuovamente a Padova nella casa del Monte presso Santa Sofia. “Francesco era ormai più che malato – scrive lo studioso Adolfo Callegari (cui va il merito di aver riportato in luce nel secolo scorso questa toccante storia). – Povero bambino, passato da un luogo all’altro, da una casa all’altra, non sue. E quel nuovo padre che aveva dovuto accettare! Perché il suo vero se n’era andato così presto? La mamma non gli voleva male, ma a volte era tanto irascibile. Forse la debolezza fisica dava a Francesco in cambio, quasi con crudeltà, una lucidità mentale superiore alla sua età anagrafica. Nel marzo del 1638 la malattia si aggravò tanto da non lasciare più spazio alla speranza. Perché la mamma gli suggeriva di chiamare il notaio? Vicino a Francesco c’era un servitore devoto il quale, in un momento di confidenza si permise di raccomandare: ‘Padroncino, non mi dimentichi!’ Quello era servitore e povero, si poteva perdonare. Ma la mamma? Se Francesco avesse detto no, sarebbe diventata dura ed ostile, mentre lui aveva bisogno di carezze e buone parole. Acconsentendo al volere della madre, con un filo di voce, egli dette ordine di convocare il notaio che giunse in gran fretta. Il signorino non si sente bene? – esclamò al suo arrivo Stefano Rossi –Quanto mi dispiace! Le sue volontà? Vuol dettare le sue volontà? Cosa giusta figliolo! Si mette tutto in ordine ed il cuore è in pace. Sono ai suoi comandi. Non è in stato di scrivere? Fa niente. Ci sono io, non v’è bisogno d’altro… La marchesa teneva fissi gli occhi su Francesco il quale a fatica esclamò: Nomino erede universale l’illustrissima signora Anna mia madre al presente consorte dell’Illustrissimo signor Cosimo dal Monte.” Nel silenzio generale, le parole che il notaio ripeteva ad alta voce mentre scriveva, suonavano nella mente di Francesco alte e distaccate.
Agli occhi del ragazzo morente scorrevano le armi appese nelle rastrelliere della villa di Brugine: armi che avevano dato gloria ai suoi antenati in valorose battaglie e che nessun Roberti avrebbe mai più impugnato, perchè il nome finiva con lui. Allora una forza interiore fece esclamare a Francesco: “Alla signora Anna mia madre raccomando la conservazione della famiglia, e per memoria di me e dei miei antenati che le armi e insegne della famiglia Roberti sempre debbano rimanere nello stato in cui si trovano”.
Il fedele servitore, forse l’unico, piangeva in disparte. “Si, amico mio – continuò il fanciullo –non temere, non ti ho dimenticato”. E rivolgendosi al notaio disse: “Alla qual signora mia madre do carico di sborsar al signor Girolamo mio servitor ducati venticinque per una volta tanto, e ciò per la fedele servitù”. Ecco, tutto era finito. Volevano altro? Allora con le lacrime che gli rigavano il giovane volto, Francesco si pose quieto in attesa che la morte bussasse alla sua porta. E l’appuntamento non era lontano...
Anna Alvarotti, non avendo figli con Cosimo del Monte, ripose in seguito tutto il proprio affetto nel pronipote Girolamo Frigimelica che venne indicato nel testamento come suo erede universale, a condizione che accettasse di inserire nel proprio cognome anche quello dei Roberti. Una decisione che Anna prese forse colta da un senso di colpa per l’atteggiamento insensibile operato nei confronti del figlio Francesco. Girolamo, detto “il contino”, con l’eredità accettò così il doppio cognome Frigimelica - Roberti e divenne un architetto di grande valore, al punto che la ricchissima famiglia Pisani di Venezia lo chiamò alla progettazione della principesca villa di Stra e all’esecuzione dei modelli. Con suo figlio Antonio finì il ramo padovano dei Frigimelica e, di conseguenza, anche il nome della famiglia Roberti i cui grandi meriti, soprattutto per la storia dell’arte veneta, con la villa di Brugine sono ancora sotto i nostri occhi dopo più di quattrocento anni. (Diego Mazzetto)